Introduzione
A partire dagli anni ’70, quando cominciano ad
emergere chiaramente i primi preoccupanti segnali dell’impatto dell’attività
dell’uomo sull’ambiente, vengono dapprima proposte politiche ambientali
incentrate su un approccio di tipo “command and control”, vale a dire politiche
coercitive basate sul rispetto di standard normativi sulle emissioni e sulle
tecnologie per la depurazione. Negli anni successivi ci si rende rapidamente
conto che gli interventi a valle dei processi di produzione, ovvero una volta
che il danno ambientale è stato provocato, non sono in grado di garantire un
elevato livello di ecoefficienza e neppure di promuovere alcuna forma di
comportamento virtuoso da parte delle aziende per andar oltre il semplice
rispetto dei limiti di legge. Il problema della gestione dei rifiuti viene
affrontato nella Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo che
si è tenuta a Rio de Janeiro nel giugno 1992, cui hanno preso parte 183 stati
di tutto il mondo e che ha prodotto un documento politico/programmatico
dedicato allo sviluppo sostenibile, conosciuto come Agenda 21. Nel documento è
evidenziata la relazione tra la produzione di rifiuti ed i consumi in generale,
rilevando come una gestione dei rifiuti ambientalmente compatibile debba andare
oltre la semplice conduzione controllata delle attività di trattamento e
smaltimento, intervenendo sulle cause della produzione di rifiuti, cioè sui
modelli di produzione e di consumo.
In quest’ottica è sollecitato un approccio che tenga
conto dell’intero ciclo di vita dei prodotti, per intervenire su tutte le fasi
del ciclo, a partire dalle materie prime, lungo tutto il processo produttivo, durante
l’utilizzo e, finalmente, lo smaltimento.
All’inizio
degli anni ’90 la quantità di rifiuti prodotti annualmente da ogni italiano era
di 360 kg, ovvero circa 1 kg di rifiuti al giorno. A partire dalla fine degli
anni '70 la produzione italiana di Rifiuti Urbani è aumentata con un tasso di
crescita media annua molto elevato, attorno al 3-5%.
Il
preoccupante aumento nella produzione dei RSU è dovuto all'evoluzione degli
stili di vita e al tenore dei consumi della popolazione; inoltre l'impiego di
imballaggi è aumentato in modo vertiginoso, a causa delle trasformazioni
occorse nel sistema di distribuzione delle merci.
A livello
comunitario la normativa sui rifiuti (direttive 91/156/CEE e 91/689/CEE)
sancisce i principi fondamentali che devono guidare gli stati membri nella
pianificazione e gestione del settore rifiuti, dalla produzione al
trattamento/smaltimento.
La strategia
comunitaria, fin dall’inizio degli anni 90, privilegia in primo luogo la
riduzione del quantitativo di rifiuti prodotti ed il miglioramento delle loro
caratteristiche qualitative, cioè la diminuzione della loro pericolosità,
mediante interventi:
·
sui processi
produttivi, con l’utilizzo di tecnologie pulite, cioè più efficienti ed a
minore impatto ambientale;
·
sui prodotti immessi sul
mercato, che devono essere progettati in modo da ridurre il quantitativo di
rifiuti prodotti e la pericolosità dei rifiuti stessi durante tutto il ciclo di vita dei prodotti stessi, considerando
dunque la fabbricazione, l’uso e lo smaltimento.
·
sui rifiuti prodotti,
studiando processi tecnologici finalizzati a ridurne la pericolosità prima dello smaltimento o del riutilizzo
nello stesso o in altri cicli produttivi.
In secondo
luogo promuove il recupero dei rifiuti mediante riciclo, reimpiego, riutilizzo
e ogni altra azione intesa a ottenere materie prime secondarie o l'uso di
rifiuti come fonte di energia (Direttiva 75/442/CEE, modificata dalla
91/156/CEE – Art. 3 comma 1).
A livello nazionale, la materia dei rifiuti è
regolata dal Decreto Legislativo n. 22 del 5/2/97, il cosiddetto ‘Decreto
Ronchi’, che ha recepito le direttive comunitarie descritte precedentemente, e
dai successivi decreti attuativi, tuttora in fase di completamento.
In primo
luogo viene sollecitata, da parte delle autorità competenti, l’adozione di
“iniziative dirette a favorire, in via prioritaria, la prevenzione e la
riduzione della produzione e della pericolosità dei rifiuti” (Art. 3).
L ’ articolo
4 promuove la riduzione dello smaltimento finale dei rifiuti attraverso:
·
il reimpiego ed il
riciclaggio;
·
le altre forme di
recupero per ottenere materia prima dai rifiuti;
·
l’adozione di misure
economiche e la determinazione di condizioni di appalto che prevedano l’impiego
dei materiali recuperati dai rifiuti al fine di favorire il mercato dei
materiali medesimi;
·
l’utilizzazione
principale dei rifiuti come combustibile o come altro mezzo per produrre
energia.
Per quanto riguarda lo smaltimento in discarica,
visto come fase residuale della gestione dei rifiuti relativa ad una quantità il più possibile ridotta, l’art. 5 comma 6 stabilisce come limite
entro cui si sarebbe dovuto annullare lo smaltimento in discarica del rifiuto
tal quale il 1/1/2000; termine già prorogato al 17/7 ( termine di recepimento
della direttiva 31/99) e probabilmente soggetto a ulteriore proroga.
L’art. 5
comma 3 definisce coma ambiti territoriali ottimali per la gestione dei rifiuti
i territori provinciali che dovranno essere autosufficienti per lo smaltimento
dei rifiuti urbani. In merito alla termodistruzione dei rifiuti all’art.5 comma
4 è imposto che “a partire dal 1° gennaio 1999 la realizzazione e la gestione
di nuovi impianti di incenerimento possono essere autorizzate solo se il relativo processo di combustione è accompagnato
da recupero energetico con una quota minima di trasformazione del potere
calorifico dei rifiuti in energia utile, calcolata su base annuale, stabilita
con apposite norme tecniche”.
La Provincia
di Milano risulta da diversi anni all'avanguardia per quanto riguarda i
risultati raggiunti con la raccolta differenziata dei rifiuti, avendo raggiunto
e superato con largo anticipo gli obiettivi percentuali fissati dall’art. 24
del Decreto Ronchi, con una percentuale di rifiuti riciclati che nel 1998 era
già oltre il 35%.
Nonostante
questo, rimane comunque una frazione considerevole di rifiuti che devono essere
trattati e smaltiti in impianti adeguati, per poi conferire in discarica la
frazione che residua dal trattamento effettuato.
La
termodistruzione (o termovalorizzazione) dei rifiuti consiste nella combustione
controllata dei rifiuti stessi, con tempi di residenza e temperature di combustione tali da
provocare la completa degradazione della sostanza organica e il controllo di
tutti i sottoprodotti di combustione più dannosi per la salute umana. Al
termine del processo vengono generate delle scorie, corrispondenti alla
frazione incombusta del rifiuto, e delle ceneri, che vengono trascinate dai
fumi di combustione. Il calore prodotto dalla combustione viene utilizzato per
produrre vapore che, fatto espandere in una turbina, genera energia elettrica.
Dalle scorie estratte dal forno vengono recuperati i rottami ferrosi, che
possono essere reimmessi nel ciclo produttivo da cui provengono.
In
sintesi, i principali fattori di impatto di un impianto di termodistruzione
sono:
·
emissione in atmosfera
di macro e micro-inquinanti;
·
produzione di scorie
pesanti di combustione provenienti dal forno;
·
produzione di ceneri
leggere e polveri provenienti dalla linea di trattamento fumi;
·
problemi di odori
legati alle sostanze emesse al camino o ai rifiuti conferiti;
·
acque di raffreddamento
scorie, di lavaggio fumi, ecc., da inviare a depurazione;
·
aumento dei flussi di
traffico nella rete viaria circostante l’impianto;
·
rumore.
Tutti questi impatti fanno sì che, nonostante la
termodistruzione rappresenti una delle soluzioni più razionali per il
trattamento della frazione di rifiuti che non può essere recuperata altrimenti,
la localizzazione di un inceneritore (come del resto di qualsiasi impianto di
trattamento o smaltimento di rifiuti) sia sempre fortemente avversata dalle
comunità locali, che temono che la presenza dell’impianto provochi un degrado
dell’ambiente circostante, per quanto riguarda la qualità dell’aria, la
viabilità, il paesaggio.
La V.I.A. è uno strumento procedurale di supporto
alle decisioni in ambito pubblico che pone la salvaguardia dell'ambiente
naturale e della salute dell'uomo al centro dei processi decisionali che
precedono la realizzazione di un'opera o di un intervento sul territorio. La
V.I.A. si esplica attraverso una procedura amministrativa finalizzata a
valutare la compatibilità ambientale di un'opera proposta sulla base di
un'analisi di tutti gli effetti che l'opera stessa esercita sull’ambiente e
sulle componenti socioeconomiche interessate nelle varie fasi della sua
realizzazione: dalla progettazione, alla costruzione, all’esercizio, fino alla
dismissione.
Un
elemento prioritario della V.I.A. è quello di favorire al massimo la
partecipazione pubblica per ridurre al minimo, o comunque gestire nel modo più
trasparente possibile, i conflitti fra le varie parti in gioco, dal momento che
ciascun portatore di interesse è spesso caratterizzato da una diversa scala di
valori e valuta in modo diverso le diverse componenti ambientali, economiche e
sociali potenzialmente influenzate dall’opera proposta.
La
V.I.A. implica un elevato livello di soggettività nella valutazione (si pesano
di più i criteri economici, quelli di salute pubblica o quelli ambientali?), e
questa soggettività, purtroppo, non è eliminabile. L’unica cosa che rimane da
fare allora è quella di rendere trasparenti le ragioni che portano il decisore
pubblico a scegliere una certa alternativa di progetto e di rendere
ripercorribile il processo decisionale in modo tale che possa essere
controllato dai vari portatori di interesse.
La
procedura di Valutazione di Impatto Ambientale è stata introdotta in Italia in
seguito all'emanazione della direttiva CEE 377/85, in base alla quale gli stati
membri della Comunità Europea hanno dovuto adeguare la loro legislazione: la
direttiva ha sancito il principio secondo il quale per ogni grande opera di
trasformazione del territorio è necessario prevedere gli impatti sull’ambiente,
naturale ed antropizzato.
In Italia la direttiva è stata recepita con la L.
349/86. La definizione della procedura di Valutazione di Impatto Ambientale
(VIA) è avvenuta tramite il D.P.C.M. 377 del 10 agosto 1988, che individua
l’insieme delle opere da sottoporre obbligatoriamente a VIA (sostanzialmente
mutuato da quello fornito nell’allegato A della direttiva CEE), e con il
D.P.C.M. del 27 dicembre 1988, che fissa le norme tecniche che regolano la
procedura stessa.
Successivamente,
il DPR 12 aprile 1996 “Atto di indirizzo e coordinamento” ha regolato la
procedura di VIA anche per altre opere minori, corrispondenti a quelle elencate
nella citata direttiva CEE (allegato B), per le quali era stata lasciata
libertà di azione ai singoli stati membri: il suddetto DPR delega le Regioni
italiane a dotarsi di legislazione specifica per una serie di categorie di
opere, elencate all’interno di due allegati (nell’allegato A sono inserite le
opere che devono essere necessariamente sottoposte a procedura di VIA,
nell’allegato B sono elencate le opere da sottoporre a procedura di Verifica).
Nell’allegato
B sono compresi anche gli impianti d’incenerimento e di trattamento rifiuti con
capacità superiore a 100 t/giorno. Si stabilisce che devono essere
necessariamente assoggettati a procedura di VIA se ricadono anche parzialmente
all’interno di aree protette come definite dalla legge 6/12/91 n.394. Inoltre,
il decreto stabilisce che, una volta che le regioni abbiano recepito tale
provvedimento, per le opere dell’allegato B deve essere l’autorità competente a
verificare e decidere, sulla base degli elementi contenuti nell’allegato D, se
l’opera deve essere assoggettata alla procedura di Via. La Regione Lombardia ha
recepito la prescrizione del DPR del 1996 emanando la L.R. 3 settembre 1999
n.20.
Sono
rilevanti, inoltre, le recenti direttive 96/61/CE e 97/11/CE che probabilmente
incideranno notevolmente nel processo di pianificazione d’opere pubbliche ed in
quello autorizzativo per la loro realizzazione.
La
direttiva 97/11/CE, una volta recepita, costituirà una ‘legge quadro’ in
materia di VIA, in quanto riunifica i contenuti delle pertinenti direttive
comunitarie e contiene elementi presenti nelle norme già emanate in Italia su
questa materia. Per il momento il processo di recepimento in Italia, interrotto
più volte per vari motivi, è a livello di disegno di legge (DdL 5100).
La
direttiva 96/61/CE sulla prevenzione e riduzione dell'inquinamento integrato
(IPCC) è stata recepita con il D. L. del 4 agosto 1999, n. 372 unicamente per
gli impianti esistenti (inclusi gli impianti di incenerimento di RSU). Per i
nuovi impianti e le modifiche sostanziali agli impianti esistenti bisognerà far
riferimento al DdL5100.
La
direttiva 97/11/CE e il DL 372/99 mostrano, infatti, una stessa impostazione
dei procedimenti autorizzativi, in particolare per quanto riguarda le
informazioni da fornire, quali:
·
descrizione del sito di
inserimento del progetto
·
stima dei possibili
effetti sull’ambiente
·
applicazione delle
migliori tecniche disponibili
·
indicazione di
specifici programmi di monitoraggio
·
indicazione delle
misure previste per evitare fenomeni di inquinamento al momento della
dismissione dell’impianto, con particolare riferimento al ripristino del sito e
all’eventuale sua bonifica.
Sia la direttiva 97/11/CE che il DL 372/99 sono
accomunati dall’obbligo dell’informazione e la partecipazione del pubblico
all’iter autorizzativo. Secondo il nuovo disegno di legge, per garantire la
realizzazione degli obiettivi di prevenzione e riduzione integrate
dell’inquinamento è necessario non solo conoscere quali siano le emissioni
quali-quantitative di un impianto, ma anche i livelli di qualità ambientale presenti
nell’intorno dell’impianto; in tale senso ai gestori degli impianti si richiede
di presentare una domanda di autorizzazione integrata che contenga delle
informazioni aggiuntive rispetto a quanto previsto fino ad ora dalla normativa
vigente in materia di “emissioni” (aria, acqua, suolo, rumore), ma che sono
alla base degli studi di impatto ambientale richiesti dalla normativa in
materia di VIA. Tali informazioni aggiuntive sono indispensabili perché
l’Autorità determini le condizioni per l’autorizzazione all’esercizio
dell’impianto (prescrizioni), che devono garantire in tutti i casi il
conseguimento di un elevato livello di protezione dell’ambiente nel suo
complesso. A tale proposito, viene richiesto di identificare quali siano gli
effetti significativi delle emissioni sull’ambiente, al di là del rispetto dei
limiti di legge previsti per le emissioni. Si richiede di fornire informazioni
anche sulle materie “ausiliarie” e sull’energia utilizzate nei processi
produttivi, quindi in qualche modo di descrivere l’efficienza di utilizzo delle
risorse. Devono essere descritte le misure previste per prevenire o contenere
la produzione di rifiuti, in linea con i principi della normativa di settore
(D.lgs 22/97 e successive modifiche e integrazioni), le tecnologie adottate per
prevenire o per ridurre le emissioni dall’impianto, le misure previste per il
controllo delle proprie emissioni. Per le informazioni che devono essere
fornite nella domanda di autorizzazione integrata il decreto prevede la
possibilità di far riferimento ad altri documenti già presentati, in
particolare per quanto riguarda le informazioni contenute nel Rapporto di
Sicurezza (per gli impianti soggetti alla Direttiva Seveso), relativamente,
quindi, alle misure previste per prevenire gli incidenti o limitarne le
conseguenze. Per gli impianti che risultino registrati ai sensi del Regolamento
1836/93 (EMAS) o certificati ai sensi della Norma ISO 14001 il richiedente può
far riferimento alla documentazione presentata ai fini della registrazione del sito,
indicando la data e il luogo della presentazione ed il soggetto che ha prodotto
tale documentazione.
Le finalità principali della procedura di VIA sono
chiaramente individuate nelle premesse alla direttiva 85/377/CEE: “gli effetti
di un progetto sull’ambiente debbono essere dichiarati per proteggere la salute
umana, contribuire con un migliore ambiente alla qualità della vita, provvedere
al mantenimento della varietà delle specie e conservare la capacità di
riproduzione dell’ecosistema in quanto risorsa essenziale di vita”, concetto ribadito nel DPR 12 aprile
1996 e, come già sottolineato per
quanto riguarda la legislazione regionale L.R.
20/1999, dalle leggi regionali che lo hanno recepito.
La
VIA deve essere vista come un percorso metodologico e procedurale che parte
dall'analisi delle alternative strategiche, per passare poi ad alternative
tecniche, localizzative e di mitigazione in modo iterativo e con
approfondimenti sempre maggiori sulla base prima del progetto preliminare, poi
del progetto di definitivo, infine del progetto esecutivo.
Gli
elementi caratterizzanti la procedura di VIA sono:
·
Studio d’Impatto
Ambientale (SIA): è il documento tecnico redatto dal proponente dello studio,
in cui è presentata una descrizione approfondita e completa delle
caratteristiche del progetto e delle principali interazioni dell’opera con
l’ambiente circostante, di cui deve essere fatto un quadro completo per quanto
riguarda la situazione precedente la realizzazione dell’opera e una previsione
della situazione successiva alla realizzazione;
·
coinvolgimento di tutte
le amministrazioni locali interessate;
·
pubblicità del procedimento: il proponente l’opera
deve depositare presso gli uffici indicati dalle amministrazioni locali
coinvolte una copia del progetto, dello studio d’impatto ambientale e della
sintesi non tecnica, a disposizione di chiunque voglia consultarli;
contestualmente deve inoltre provvedere alla pubblicazione di un annuncio su uno
o più quotidiani di livello provinciale, regionale o nazionale, a seconda del
rilievo dell’opera, con riferimento all’avvio del procedimento di valutazione;
·
partecipazione al
procedimento: chiunque può presentare in forma scritta osservazioni sull’opera proposta;
tali osservazioni devono essere prese in considerazione per il rilascio del
giudizio di compatibilità ambientale e possono dare origine a un’inchiesta
pubblica per l’esame dello studio presentato e delle osservazioni.
I
contenuti dello studio d’impatto ambientale che deve essere presentato per la
pronuncia di compatibilità ambientale sono descritti all’art.2 punto 3 del DPCM
377 del 10/8/88. Secondo questo articolo, il SIA deve contenere:
·
l'indicazione della
localizzazione riferita alla incidenza spaziale e territoriale dell'intervento,
alla luce delle principali alternative prese in esame, alla incidenza sulle
risorse naturali, alla corrispondenza ai piani urbanistici, paesistici,
territoriali e di settore, agli eventuali vincoli paesaggistici, archeologici,
demaniali ed idrogeologici, supportata da adeguata cartografia;
·
la specificazione degli
scarichi idrici e delle misure previste per l'osservanza della normativa
vigente, nonché le eventuali conseguenti alterazioni della qualità del corpo
ricettore finale;
·
la specificazione dei
rifiuti solidi e delle relative modalità di smaltimento rapportata alle
prescrizioni della normativa vigente in materia;
·
la specificazione delle
emissioni nell'atmosfera da sostanze
inquinanti, rapportata alla normativa vigente, nonché le conseguenti
alterazioni della qualità dell'aria anche
alla luce delle migliori tecnologie disponibili;
·
la specificazione delle
emissioni sonore prodotte e degli accorgimenti e delle tecniche riduttive del
rumore previsti;
·
la descrizione dei
dispositivi di eliminazione e risarcimento dei danni all'ambiente con
riferimento alle scelte progettuali, alle migliori tecniche disponibili ed agli
aspetti tecnico-economici;
·
i piani di prevenzione
dei danni all'ambiente con
riferimento alle fasi di costruzione e gestione;
·
i piani di monitoraggio
ambientale secondo le specificazioni
derivanti dalla normativa vigente o da particolari esigenze in relazione alle
singole opere;
·
un riassunto non
tecnico di quanto previsto alle lettere precedenti.
Il
DPCM del 27/12/88 stabilisce che il SIA deve contenere 3 quadri distinti:
·
Quadro di riferimento
programmatico: fornisce gli elementi sulle relazioni tra l'opera progettata e
gli atti di pianificazione e programmazione territoriale e settoriale, i
rapporti di coerenza del progetto con gli obiettivi perseguiti dagli strumenti
pianificatori, l'indicazione dei tempi previsti per la realizzazione
dell’opera;
·
Quadro di riferimento
progettuale: descrive il progetto e le soluzioni adottate a seguito degli studi
effettuati, le motivazioni assunte dal proponente nella definizione del
progetto, la natura dei beni e dei servizi offerti;
·
Quadro di riferimento
ambientale: definisce l’ambito territoriale, inteso sia come sito che come area
vasta, e i sistemi ambientali interessati dal progetto sia direttamente che
indirettamente, ponendo in evidenza l’eventuale criticità degli stessi. Le
componenti ambientali sulle quali valutare le possibili interferenze indotte
dall’opera sono:
a.
atmosfera: qualità
dell’aria e caratterizzazione meteoclimatica;
b.
ambiente idrico: acque
sotterranee e acque superficiali, considerate come componenti, come ambienti e
come risorse;
c.
suolo e sottosuolo,
intesi sotto il profilo geologico, geomorfologico e pedologico, ed anche come
risorse non rinnovabili;
d.
vegetazione, flora,
fauna, ecosistemi, salute pubblica, rumore e vibrazioni, paesaggio: come
aspetti morfologici e culturali, identità delle comunità umane interessate e
relativi beni culturali.
La nascita dell’impianto di Trezzo sull’Adda va
inquadrata nella situazione di emergenza che si era venuta a creare alla metà
degli anni 90 in provincia di Milano.
Nel 1994 era stato decretato per la provincia di
Milano lo stato di emergenza nel settore dello smaltimento dei R.S.U. (D.P.C.M.
8/11/94, ai sensi e per gli effetti dell'art. 5 comma 1 della L. 24/2/92 n.
225) ed era stato nominato, con ordinanza del Presidente del Consiglio dei
Ministri in data 22/11/94, il Commissario delegato a fronteggiare con provvedimenti
straordinari l'emergenza rifiuti.
L'art.
32 del suddetto DPCM (Impianti a contenuto innovativo) stabiliva che nel
periodo di vigenza del programma a breve termine e anche in deroga a esso, la Regione,
in accordo con le amministrazioni provinciali competenti per territorio, poteva
autorizzare la realizzazione di impianti per il trattamento, il recupero e/o lo
smaltimento dei RSU e assimilabili o di frazioni degli stessi, i cui progetti,
presentati da soggetti pubblici o privati, avessero i seguenti requisiti:
·
fossero stati approvati
dal Comune sede dell’impianto;
·
fossero corredati da
uno studio di compatibilità ambientale, redatto secondo le linee guida allegate
alla legge stessa;
·
presentassero
caratteristiche di innovazione tecnologica e/o di processo.
In
seguito alle trattative con il Commissario di Governo, la Regione Lombardia e
l'Amministrazione Provinciale, il Comune di Trezzo sull'Adda ha presentato nel
febbraio '95 il "Programma d'intervento in merito allo smaltimento dei RSU
propri e del Consorzio Est Milanese, allargato al Comune di Monza".
L'intervento complessivo del Piano era stato suddiviso in due parti
complementari tra loro: programma a medio termine e programma di breve termine.
Con
il programma a medio termine, il comune di Trezzo sull’Adda intendeva
affrontare il problema dello smaltimento dei rifiuti urbani mediante la
costruzione di un termodistruttore con recupero energetico. Tale programma
avrebbe richiesto alcuni anni prima di diventare operativo, pertanto, nel
frattempo, veniva avviato il programma a breve termine. Tale programma
prevedeva la realizzazione di un impianto di preselezione e pretrattamento dei
rifiuti solidi urbani e un bacino di stoccaggio del materiale pretrattato, in
attesa di essere sottoposto al processo di combustione, una volta che
l'impianto di termodistruzione fosse diventato operativo.
L'impianto di termodistruzione di Trezzo sull'Adda è
stato autorizzato dal Commissario delegato all'emergenza rifiuti della Regione
Lombardia nel dicembre del 1996, ed è stato inserito nel Piano Provinciale di
Smaltimento Rifiuti della Provincia di Milano. L'autorizzazione commissariale
prevede il trattamento giornaliero di 400t di Rifiuti Solidi Urbani o
assimilabili agli urbani e, fino al loro esaurimento, 100t di rifiuti
stabilizzati prodotti nell'adiacente impianto di pretrattamento e stoccati nel
relativo bacino.
Nel rispetto della normativa vigente l’impianto non è stato sottoposto
alla procedura di valutazione d’impatto ambientale, ma alla presentazione di
uno studio di compatibilità ambientale allegato al progetto.
L'Amministrazione Comunale insediatasi nel 1999 ha
ritenuto che l’assenza di una Valutazione di Impatto Ambientale. ai sensi dei
DPCM dell'88 e del DPR del 96, seppur legittima dal punto di vista formale,
fosse una carenza sostanziale.
Per
questo motivo, l'amministrazione comunale ha richiesto alla PRIMA/TTR un
approfondimento della relazione di compatibilità ambientale già depositata nel
1996 ed ha commissionato al Dipartimento di Scienze Ambientali dell’Università
di Parma, nella persona del Prof. De Leo, la verifica dello stesso studio e
delle successive integrazioni, oltre ad approfondimenti indipendenti in merito.
Dato
lo stato di avanzamento della realizzazione dell’opera (l’impianto è in fase
avanzata di costruzione, le opere civili sono ormai terminate ed è stata
avviata la fase di installazione degli impianti tecnologici), non ha più senso
parlare di alternative di localizzazione o tecnologiche di tipo sostanziale, e
più che di VIA in senso stretto è più corretto parlare di verifica della
compatibilità ambientale dell’opera nel pieno spirito del DL 372/99 (IPPC).
In
particolare il comune di Trezzo ha chiesto di:
·
verificare la
completezza e correttezza dei contenuti dello studio di compatibilità
ambientale presentato a suo tempo per il rilascio dell’autorizzazione, e
richiedere alla ditta PRIMA le integrazioni e revisioni che fossero
eventualmente necessarie;
·
approfondire alcuni
aspetti legati agli impatti ambientali ritenuti maggiormente significativi, in
particolare per quanto riguarda i potenziali effetti dell’impianto sulla salute
umana;
·
analizzare il
territorio circostante l’impianto, per valutare la pressione cui è sottoposto
dalle attività attualmente presenti, cui l’impianto andrà ad aggiungersi;
·
fornire indicazioni
sulle possibili azioni di mitigazione degli impatti individuati e sugli aspetti
che andranno tenuti in maggiore considerazione nella definizione delle modalità
di gestione, controllo e monitoraggio dell’impianto, anche in considerazione
della prevista adesione al regolamento EMAS.
I
risultati dello studio saranno diffusi pubblicamente mediante un’assemblea e la
pubblicazione della documentazione prodotta nell’ambito del progetto su
supporto informatico.